Contatti

mercoledì 11 aprile 2018

Il linguaggio cinematografico di Vittorio Butera.



Nella poesia di Vittorio Butera si alternano momenti di pura liricità (canti) a momenti narrativi (cunti), ma sia negli uni che negli altri, compare sempre, diventando una caratteristica costante, la sua volontà descrittiva. La maggior parte dei suoi componimenti sono un susseguirsi d'immagini: paesaggi, personaggi, animali. Sono immagini di cui il poeta si serve per suggerire al lettore sensazioni e riflessioni; immagini che parlano da sole e che non necessitano di nessun commento. Quando questo c'è , diventa un'appendice inutile.
Vittorio Butera eccelle nell'uso della parola o della frase visualizzante. Come un cineasta egli ci trasporta qua e là con la sua penna- cinepresa, ora puntando sull'insieme, ora arrestandosi e ingrandendo il particolare. Con un cambio frequente di metrica interviene anche sull'azione, a volte accelerandola, a volte rallentandola. Una serie di sequenze ben collegate che danno al lettore spettatore la possibilità di seguire e di capire senza difficoltà lo sviluppo della vicenda.
Per renderci conto di queste suo modo di procedere analizziamo alcune sue poesie:


U piecuraru e ri cani.

Dapprima appaiono le pecore che meriggiano " a nna manca". L'angolo di visualizzazione è quello dove si trova l'autore: " dde dduve me truvu a re guardare". Poi di colpo l'immagine si amplia e si focalizza sugli animali che si stagliano sul terreno, simili a " na cista de vucata janca, amprata supra l'erva ad asciucare". La continua ripetizione della vocale aperta -a è come un raggio di luce che si sposta per illuminare la scena. La visione è completa, ma l'autore, con un sapente utilizzo del contrasto di luci ed ombre, ci porta a fissare il particolare: " l'erva " per ricordarci che siamo in campagna. La fontana che canta aggiunge il sonoro. Dal sole si ritorna all'ombra. Costruito lo sfondo bisogna zoomare sui protagonisti e la cinepresa si blocca su "zu Franciscu". Ne mostra le mani, soffermandosi sulla sua misera colazione " n'ugna ' calaturu " e un pezzo di pane nero; indugia ancora un po' per evidenziare l'azione: " chianu, chianu se sgrana..." La ripetizione continua di anu... anu.. ( allitterazione) crea nel verso un rallentamento. Lo scopo è probabilmente di trasmettere il sentimento del pastore che allunga volutamente i tempi del mangiare per crearsi l'illusione che la sua colazione sia più sostanziosa. Forse per dare l'immagine di un uomo che vive tranquillamente la sua vita, con ritmi ben diversi da quelli della città.
E' impossibile per noi percepire l'odore del suo cibo, ma è immaginabile. Collegata all'immagine del pane c'è un accorrere veloce di cani; il loro precipitarsi verso il pastore è reso perfettamente dall'accelerazione del ritmo del verso. La scena si popola. C'è il pastore al centro, circondato dai cani, quasi come tanto evangelisti davanti all'altare. L'autore, intano, come in un film, appare e riappare. Come una voce da fondo campo. è lì a ricordarci ch'è sempre presente: " iu me ricriju..." Sono i suoi occhi che ci guidano portandoci verso un cagnolino, un po' più in là " quattru passi distante". Il primo piano con la " liccata e mussu" è certamente eloquente, ma lo è ancora di più il suo vuoto inghiottire. Non è il solo ad aspettare; accanto, una cagnolina accovacciata per terra, spera , col suo sguardo implorante di muovere a compassione il pastore; il movimento della sua coda è rapido, come una spazzola pulisce tutto lo spazio intorno. Questo gesto così intenso, in contrasto con l'immobilità del corpo, manifesta tutta la sua ansia. Tutto ciò potrebbe bastare per immedesimarci negli animali, ma l'autore preferisce insistere con particolari chiarificativi ed eccolo soffermarsi ancora u un un cane che "annasca". Questo suo annusare ottiene l'impossibile: ci consente di percepire l'odore che prima ci sfuggiva. Con un lamento ripetuto il cane richiama a sé l'attenzione del pastore. E questi riappare mentre continua a consumare il suo povero pasto lentamente, stancamente. la sua indifferenza nei confronti della fame dei cani è chiaramente visibile nel lento procedere dei suoi versi e , quando infastidito , lancia il suo strascicato "z'a ". Non si scompone. Per lui è come se gli animali non esistessero. Si capisce che non cederà. I cani non hanno perso ancora la speranza; si nota dal loro frenetico e continuo agitarsi: " se votanu, se giranu". Lo fanno sino a quando l'ultimo movimento di Ciccu, ch'è inequivocabile, toglie loro la speranza: rimette il pane che gli è rimasto nel tascapane. I cani capiscono e vanno via. La loro partenza chiude definitivamente la scena.




Mamma Carmela.



Il componimento si apre con la presentazione immediata della protagonista: mamma Carmela.
Tutto ruota intorno a lei; dall'inizio alla fine. L'uso dell'apposizione mamma richiama subito la presenza dei figli ed eccone due: l'uno in braccio, l'altro condotto per mano. In capo la donna porta una fascina di legna secca. Una tipica scena d'altri tempi con una donna carica di peso e di famiglia. Cammina verso casa, passando per il bosco; nevica. Questo accenno alle condizioni climatiche sembra quasi fatto con indifferenza come se la cosa non riguardasse nessuno. Il paesaggio è tranquillo; un tipico paesaggio invernale che non suscita nessuna paura. Tra l'altro l'albero del bosco è il pino, simbolo della quiete. Tranquillo è il passo della donna. Il passo di chi conosce bene la via di casa. L'imbrunire che " a puocu , a puocu 'ncigna" incornicia e completa degnamente questo quadro di serenità. Continua a nevicare, ma la neve non sembra impensierire i viandanti. Il suo scendere lento e il silenzio intorno fanno risaltare ancora di più l'atmosfera di pace: "duce, duce cade a nive 'ntuornu ". L'uso del verbo "ppannizzijannu" è di notevole suggestione: ci sembra di veder la neve cadere a grossi fiocchi dall'alto e, come soffice bambagia, delicatamente posarsi per terra. Un quadretto idilliaco e un tornare sereno verso casa. C'è qualcosa nei versi che richiama la musicalità della lirica leopardiana o pascoliana e trasmette la malinconia che ognuno ha in cuore " quannu nne fa notte ppe ra via". Ma la sera " dal nevoso aerei inquiete tenebre e lunghe all'universo mena" (Foscolo) . Il buio diventa sempre più cupo. La neve aumenta. Contemporaneamente cresce l'agitazione della donna che allunga il passo per non essere sorpresa dal calar della notte. Più che per lei essa teme per i suoi figlioli. Poi improvvisa, arriva la tempesta. L'atmosfera cambia. Tutti gli elementi della natura si scatenano. Il bosco diventa un paesaggio da incubo. La neve non scende più dolcemente come prima. Più che vederla, si sente; diventa fastidiosa e violenta. Il vento fischia. La nebbia, sempre più veloce, copre e avvolge ogni cosa. I figli sono terrorizzati. Tutto intorno concorre a creare un'atmosfera di paura e il poeta comunica questa sensazione utilizzando sostantivi e verbi in cui la lettera " r " si ripete continuamente: "Chi parica se mpesa ra furesta " " a mamma s'affrigge e se dispera ".
La difficoltà della madre è visibile; la scelta di verbi onomatopeici, affunna, mpunna , rendono perfettamente lo sforzo che essa compie nell'avanzare.
Il lettore- spettatore la segue con trepidazione; spera che essa possa continuare, ma è quasi sicuro che le forze le verranno meno. La via è ancora lunga; lo sappiamo per bocca della protagonista: " è tanta,tanta longa a via". Nell'aggettivo " longa" ripetuto si coglie lo sconforto della donna e la sua certezza di non poter arrivare alla meta. La lotta è impari. Pare tutto perduto e, in effetti, in mezzo a quel buio la donna sembra perdere ogni speranza; si ferma, " unn nne pò cchiù"; ma all'improvviso interviene il richiamo della fede; il pensiero di Carmela si volge alla Madonna e prega. Il suono dell'Ave Maria è la risposta del cielo. Dio non abbandona mai le sue creature e particolarmente i più deboli. Nell'apparizione improvvisa di " na cona". la donna vede un segno divino. Riconquista fiducia e riprende vigore. La lampada che brucia nell'interno dell'edicola è il simbolo della fiamma della fede che arde nel suo cuore. La donna si affida alla madre divina e in un estremo sacrificio offre la sua vita per la salvezza dei figli. La fede e la certezza che Dio non l'abbandonerà guidano i suoi ultimi gesti tranquilli: si leva , uno a uno, i suoi indumenti: " u vancale, a fadiglia" e con essi copre i figli. Ormai dimentica di se stessa, sembra vivere in un'altra dimensione. Il freddo penetra nel suo corpo, ma è come se lei non l'avvertisse; il suo pensiero è solo rivolto alla Madonna ed ai ragazzi. La neve continua a scendere e copre completamente il gruppo. Una scena statuaria simbolo dell'amore e del sacrificio materno. Potrebbe essere l'atto finale; ma il poeta non ci abbandona; non vuole lasciarci nel dubbio. le due scene finali ci chiariscono tutto: la madre è morta, ma i figli sono salvi. la fede ha vinto.

Vidute.



L'esempio più probante di questo genere di poesie è " Vidute " un inno d'amore di Vittorio Butera al paese natale.
La poesia ricostruisce il paesaggio con un susseguirsi d'immagini, di colori . Un policromo quadro d'autore realista dove la natura si manifesta in tutta la sua varietà e bellezza. Il poeta è presente e ci guida col suo sguardo a contemplare uno splendido paesaggio che si svela con bagliori improvvisi
Tutte le montagne intorno e poi un alternarsi di " erte e ispianate ", di boschi e dirupi. L'immobilità della natura lontana ( boschi e montagne) e il lieve ondeggiare delle messi. Poi l'immagine si restringe, si fa più chiara e compare il verde degli alberi: querce e castagni. Tra i rami dei castagni. qui e là, emerge il bianco candore della " giurranna". Alla montagna e al verde del bosco succede il giallo dei campi seminati a grano. L'uomo non si vede, ma se ne avverte la presenza. Poi case biancheggianti sul pendio. La casa è il simbolo della famiglia e della vita. Ancora il giallo della profumata ginestra con i i suoi " cespi solitari sparsi "1 lungo i burroni, là dove " null'altro alberga né fior "2 In lontananza il verde tenue dei boschi ammantati di alberi: lecci e pini .Di nuovo " cime elevate al cielo"; e un cielo splendente a incoronare questo panorama. Il cielo e la terra. L'uomo e Dio. E infine il riecheggiare del cinguettio degli uccelli e dei gridi di bambini, reso dalla frequente insistenza dei versi su echi fonici ( assonanza): illi, illi, ini, ini, uce , uce , ielli, ielli. Questi suoni sono i canti della serenità della felicità. Ed i bambini soprattutto sono il simbolo della terra feconda, della vita che si rinnova.


Piecure e cani



E' l'imbrunire. Il dolce momento del ritorno a casa. E' una parte del giorno particolarmente cara a Vittorio Butera che vi ritorna spesso e che, in altre poesie, descrive in modo mirabile. Forse perché richiama la malinconia e la nostalgia delle cose passate. Forse perché porta la mente a riflettere sul veloce passare della vita. Comunque un tema che lo apparenta ai grandi poeti romantici quali Foscolo e Leopardi.
La prima immagine è quella delle pecore che rientrano all'ovile, Accanto ad esse cammina il vecchio pastore. Il loro è un procedere lento verso casa. Il pastore manifesta la felicità del ritorno suonando il suo zufolo. Un cane conscio della sua funzione, precede il gruppo, pronto sia alla difesa che all'attacco. La sua coda, lunga e tesa, è simbolo del suo coraggio. Anche questo quadro è idilliaco. C'è una naturale attesa di veder apparire la casa e i familiari; ma all'improvviso la situazione precipita. Appare una macchina. Il rombo del motore rompe l'armonia della scena. Il cane vorrebbe scagliare l'intruso, ma perisce miseramente.
Ancora una volta si ritrova in Vittorio Butera lo scontro tra il vecchio e il nuovo; tra una vecchia civiltà contadina e quella industriale che avanza velocemente e prepotentemente. La vecchia è inesorabilmente destinata a sparire e a nulla servono le lotte di paladini che come il cane cercano di frenarla.
1Leopardi: " La ginestra"
2Ibidem.

Nessun commento:

Posta un commento