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domenica 24 maggio 2009

Vittorio Butera attacca potenti e prepotenti






Se è compito della satira attaccare i potenti e castigare mores, con i suoi componimenti li Cunti dell'antico genere favolistico, Vittorio Butera (poeta dialettale originario di Conflenti) svolge que­sto ruolo senza risparmiare nessuno: i terrieri della società agraria che si comportano da piccoli baro­ni; il regime fascista e i suoi seguaci; le prepotenze d'ogni genere; i comportamenti dei suoi conterra­nei, presi a campione dell'umanità.
Vissuto tra la lunga fine della società agricola nel meridione d'Italia e !'inizio del sistema indu­striale, Butera attraversa tre fasi politiche della storia nazionale: la monarchia, il ventennio fascista, gli inizi della democrazia repubblicana. Nell'Italia post-unitaria trascorre l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza. Per quanto questo periodo sia caro al suo animo perché vissuto in parte ma intensamente nella terra d'origine, lungi dal ritrarlo aureolato dalle nostalgie, lo vede nella drammatica realtà fatta di residui feudali, di ingiustizie ataviche, di feri­te aperte dalla questione meridionale. Ancora più pesante la fase successiva della dittatura che annienta la libertà, la solidarietà e altri valori atavi­ci su cui si erano rette le piccole formazioni sociali dell'epoca agraria. Quella attaccata da Butera è una società senza riscatto, destinata a concludersi con l'abbandono dei paesi e delle campagne del meridione.
Pur appartenendo alla classe dei proprietari ter­rieri, il poeta s'indigna nel veder trattare i contadi­ni come schiavi, e rappresenta lo prepotenza vin­cente del padronato nella fabula "'U trappitaru e ra ciuccia": un asino nel tentativo di ribellarsi allo sfrut­tamento chiede perché sia stato ribassato il prezzo del suo lavoro; di fronte al padrone che afferma l'ar­rogante indiscutibilità del suo volere: "Ppecchì de ccussì bbuog/iu\ si nno te mannu a spassu"; l'asino vorrebbe reagire: "'A ciuccia ppe' ra stìzza\ chi le saglìudi 'n canna\ vulìa rrumpire 'a vriglia e ra capizza\ppe' lIe dare due cauci a cchira bbanna", però, cadendole sotto gli occhi la sua puledra, è costretta a reprimere l'indignazione e ad affidarsi a una giustizia diversa da quella terrena: "E ccu nna rivirenza \ disse: -Patrù, faciti\ cumu vussignurìa miegliu criditi... \e ra manu de Ddiu ppemmu cce penza".
I soprusi esercitati nel corso dei secoli tramite il malgoverno, così consueti da essere percepiti dalle masse popolari come calamità ineliminabili e natu­rali, si traducono in fame e in disuguaglianza nei confronti della legge. Una delle favole, "A cuniglia e ra duonnula", è pervasa da una particolare indi­gnazione perché vittima dell'abuso è una coniglia prossima al parto. Scavatasi una tana, la puerpera si strappa i peli dal petto per preparare un morbido giaciglio ai nascituri; ecco però, che approfittando della sua uscita alla ricerca di un'ostetrica, una don­nola vi si insedia. Quando la coniglia torna, si sente dire che la legge Pica è decaduta e che la legge nuova tutela chi occupa una casa con lo porta aper­ta: '" na tana senza porta, \ e ppe' dde cchiù bacan­te, \ è dd'o prim'occupante, \ pìeju ppe ttie si quan­nu si' nnisciuta\ u' /l'hai chiuduta!"; quindi, l'usur­patrice minaccia di querela la coniglia che, per non finire a partorire in galera, "s'appedi de scavare n'autra tana\ a 'nna trempa luntana".
Se il titolo di un componimento recita" 'A legge è gguala ppe tutti", dal contenuto se ne capisce lo valenza ironica: zu Micu affida al suo cane l'attenta sorveglianza del ramo di un fico che dall'orto confinante di zu Ndria pende nel suo, perché, affer­ma: "U codice civile\ dice ca dduve penne\ /'àrvu­lu renne". Quando, però, una cima del suo limone va a pendere nell'orto adiacente, chiama il cane a fare la guardia affinché il vicino non raccolga i limo­ni, e al cane che evidenzia la contraddizione del suo comportamento dice che di codici "cci nn'è cchiù d'unu - E' naturale!\ cc'è ru civile e cc'è ru cri­minale\,e, nnestra, car'amicu, \ cci nn'edi unu ppe Ndria, n'autru ppe Micu". Il poeta è disposto a sor­ridere della pretesa di zu Micu che vanta un codice tutto per sé, perché l'antagonista è una persona di pari condizione sociale, ma il sorriso bonario scom­pare e subentra il riso amaro qualora il torto sia subito dai deboli. E' quanto succede in "U cane e ru gattu", dove un cane, ricorrendo alla corruzione, fa condannare" nu povaru pizzente \ de gattu scanga­latu" a trent'anni di galera con l'accusa di avere maturato l'intenzione di rompergli le zanne.
Le idee politiche di Vittorio Butera, in senso partitico, non emergono dai versi; è invece chiara la posizione contro il fascismo. Nelle varie sillogi figu­rano sia lazzi lanciati in modo diretto contro il pote­re fascista, sia attacchi velati dall'ironia o contenuti nella metafora. In molti casi è significativa la data­zione, che solitamente manca nei componimenti privi di implicazioni politiche. Il suo è un antifasci­smo integrale che, pur scaturendo essenzialmente dalla mancanza di libertà prodotta dal regime, si estende ad ogni iniziativa, ad ogni aspetto del par­tito totalitario e della politica del duce: il concorda­to, la guerra, la sterile propaganda; persino l'intro­duzione degli acquedotti gli offre lo spunto per la contestazione. In "'A funtana 'e Fruntera", il poeta ironizza sull'avvento improvviso dell'acquedotto, che una mattina con discorsi propagandistici e un grande sventolare di bandiere arriva a interrompe­re bruscamente usi e comportamenti atavici; la gente abbandona la vecchia fontana, perché "'sta gente nostra è sempre stata\ o 'ngrata o trafaccè­ra", finché, crollato l'acquedotto per una frana, torna alla sorgente. L'attacco alla gente infedele e voltafaccia apparirebbe esagerato se non occultas­se la condanna della facilità a passare al nuovo (in tal caso, al fascismo), e la leggerezza nell'abban­donare i vecchi valori per aderire a quelli di un regi­me che avrebbe travolto la libertà e portato ai disa­stri della guerra.
Il gusto macchiettistico prevale in "Duce 1922", dove i fascisti sono rappresentati come priscari, ossia pupazzi che fanno i bambini utilizzando "'na mmerda de vue". Il duce non figura in quella squa­driglia, perché i bambini non dispongono a suffi­cienza del poco nobile materiale per riprodurne la massiccia immagine. Più graffiante" Surchi", datata 7 settembre 1942; il poeta fa rappresentare gli insuccessi bellici dell'asse Roma-Berlino da un por­cospino, che ha assicurato un destino straordinario, e invece trova l'Inghilterra a capovolgere i suoi piani. Il sarcasmo sulle promesse del duce è accen­tuato in "Mete", scritta il 15 settembre del 1942 quando sono ormai chiari i traguardi raggiunti con il fascismo, cioè "'no mo/'onnota, \ a fame e ra dieta".
Tra le satire in cui l'antifascismo viene espresso con linguaggio traslato è da annoverare "L'Urzi", che porta la data 1 aprile 1934, cioè piena epoca fascista. Interpretando il testo da un'ottica politica, gli orzi scuri s'identificano con le camicie nere, e gli antitetici orzi bianchi con gli antifascisti. I neri van­tano di avere tutto il popolo dalla loro parte; i bian­chi dicono che loro non possono porsi in evidenza, però osservando attentamente ognuno può scoprire la densità delle loro file. In "A quaglia e ra jocca", il finale molto duro "cchi razza de canaglia\chi foze chira quaglia!" più che la condanna di spie comuni fa presupporre la riprovazione dei delatori fascisti, responsabili di avere messo a rischio il valo­re antico della fiducia e della solidarietà nei con­fronti dei propri concittadini, persino rispetto ai vici­ni, che in quella formazione sociale ancora di tipo agricolo avevano costituito un circuito di reciprocità molto solido. Può darsi che "Capituosti", cioè colo­ro che non si lasciano convincere a cambiare le pro­prie idee e i propri comportamenti, datata 20 otto­bre 1935, trovi i naturali referenti tra amici e cono­scenti del poeta; a Conflenti, infatti, era presente un gruppo antifascista collegato al più numeroso nucleo lamentino, che non si lasciò intimidire dalle purghe e dalle manganellate delle camicie nere locali. L'esclamazione "Ah, quanta ggente 'ncan­ta\quannu nu ciucciu canta!", con cui si conclude di componimento" Lunatici" datato 7 novembre 1934, sembra riferirsi alla propensione che dimostrarono le masse a lasciarsi convincere dai discorsi propa­gandistici, dalle ostentazioni di grandezza, dalle vanagloriose promesse del duce.
E' anche allusivo il valore politico nei versi di "'A Cerza e re canne". Una selva di canne ondeg­gia su una sponda fluviale piegandosi .ora da una parte, ora dall'altra ai soffi del vento: "Ccu l'anima vacante\ e nna bannera l'una\ ad ognr flotta 'e luna\, s'è chjicanu da banna\ chi ordina e cuman­no"; sull'altra riva, giace una quercia abbattuta dalla tempesta. Ma, le canne vive e vegete non val­gono quanto la quercia morta, che continua ad essere utile offrendo le sue spoglie per il focolare della gente: "Vale cchju na Cerza morta\ ca trimila canne vive". le canne si prestano ad essere metafo­ra delle banderuole, mentre nella quercia s'identifi­ca chi è capace di sacrificare la vita in difesa di un ideale. Siccome, però, il sacrificio della vita non può essere accettato a cuor leggero, la coscienza del poeta entra in crisi in "'U pinu e ra canna": qui è il pino a non piegarsi al vento, perciò viene ridot­to in tanti pezzi che sembrano corpi mutilati di sol­dati" munti munti ammuzzillati, \ paru cuorpi de sur­dati\ stisi 'nterra\ doppu 'a furia de 'no guerra"'; è una evocazione troppo forte per non sollevare un'in­terrogazione carica di angoscia a cui il poeta non fornisce risposta: "Miegliu canna o miegliu pinu?". la quercia si afferma ancora come albero della libertà in "'A Cerza e ra mierula", dove il riferimen­to alla politica si deduce dal richiamo alla "libertà": la quercia dai rami recisi a colpi di scure germo­glierà ancora più vigorosa, perché, afferma il merlo, la repressione violenta ha sempre rigenerato il desiderio della libertà: "Cchjù ri cuorpi sunu stati arditi\ cchjù d'illa 'e cientu banne edi jittata\ e ppe ra libertà nn'ha sempre datu\ 'a pampina cchjù birde chi sapiti".
A pochi giorni dal Concordato (17 febbraio 1929), Vittorio Butera scrive l'epigramma "Sincerità", per esprimere non il messaggio dichia­rato dell'insincerità delle donne bensì la perdita di valore della politica vaticana ("nu sordu papalinu'1 a causa dei Patti con Mussolini.
Non figura la data nel componimento "'U grillu zuoppu", ma è certamente posteriore alla fine della dittatura. l'ultima strofa, infatti, celebra il ritorno alla libertà riscattata con lo spargimento del sangue: "Mu è sempre benedittu \ u sangu chi se spanne, \ si 'n terra lasso scrittu, \ ppe' mparamientu de l'uma­nità: \ Viva ra libbirtà".
Quando finalmente la democrazia conferisce pari dignità a tutti e, nella prospettiva di una cre­scente giustizia e uguaglianza, le distanze tra i cit­tadini si accorciano, Vittorio Butera consente a se stesso di mettere in satira le prime manifestazioni politiche della gente comune. Sono i risultati del referendum del 1946 a farlo ironizzare sul secola­re attaccamento del calabrese alla monarchia. Nel sonetto" Repubblicani monarchici", due persone dichiarano di essere repubblicani, ma nel corso del dialogo uno dei due non resiste all'impulso di giu­stificare il re attribuendo a "chiru cacchiu d'ammaz­zatu" (cioè a Mussolini) la responsabilità del com­portamento del sovrano, e infine confessa: "Aiu vutatu ppe ra monarchia".
Mentre il mutamento politico dopo la guerra ha la repentinità delle rivoluzioni con il passaggio dalla monarchia alla repubblica e dalla dittatura alla democrazia, la situazione socio - economica si evol­ve con lentezza. Il poeta assiste ai primi fenomeni dell' evoluzione industriale, quali l'emigrazione di massa e l'abbandono delle campagne e non rispar­mia lazzi ai nuovi comportamenti sociali, come il disinteresse per il lavoro agricolo che riduce la sua vigna ('A vigna), un tempo produttrice di vino e uve pregiate, in un terreno selvaggio.

Vittoria Butera

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